Benvenuti al numero 195 di Orazio Food Experience. Un particolare benvenuto a chi si è iscritto nell’ultima settimana!
Ogni festa è caratterizzata da un dolce e come si sa i dolci delle feste sono tutti squisiti. Abbiamo da poco dimenticato il panettone, poi sono arrivate le chiacchiere di carnevale e ora con la Pasqua arrivano le uova di cioccolato (per carità, c’è anche la colomba!), il dolce che forse più la rappresenta.
L’uovo fin dall'antichità ha ricoperto un valore simbolico augurale. In alcune culture terra e cielo, unendosi, formavano proprio un uovo, simbolo di vita. Per gli antichi Egizi l'uovo era invece l'origine di tutto e il fulcro dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco). I Persiani in primavera, la stagione in cui la natura risorge, si regalavano delle uova, simbolo di nuova vita. Nella religione cristiana queste tradizioni sono state reinterpretate e l'uovo è diventato il simbolo che meglio coglie il significato del miracolo della Resurrezione.
L'usanza di regalarsi uova si diffonde a partire dal Medioevo, in Germania. Qui tra la gente comune la consuetudine era distribuire uova bollite, avvolte in foglie e fiori in modo che si colorassero naturalmente. Tra i nobili, gli aristocratici e i sovrani invece, si diffuse l'abitudine di fabbricarne alcune di argento, platino o oro, decorate.
Ma le uova di cioccolato sembra abbiano origine nel Settecento, quando il chocolatier francese David Chaillou inventò il primo uovo di cioccolato artigianale con crema di cacao. Questa sua invenzione gli fu commissionata del re Luigi XIV, che volle sostituire l’oro con il cioccolato (mica scemo!) nella realizzazione dei doni pasquali dell’epoca e concesse al suo artigiano il diritto esclusivo di vendere cioccolato nella città di Parigi.
Tuttavia la nascita delle uova di cioccolato, tipo quelle che mangiamo oggi, viene attribuita a François Louis Cailler, che nel 1819 inventò, nel suo stabilimento svizzero, uno speciale macchinario per la lavorazione del cacao. Questa sua invenzione consentiva di lavorare il cacao e di trasformarlo in una pasta di cioccolato manipolabile in più forme solide, partendo dalle famose tavolette fino ad arrivare a forme tipo le uova.
L’invenzione dell’uovo di cioccolato con sorpresa si deve invece all’orafo e gioielliere russo Peter Carl Fabergé, che nel 1887 fu incaricato dallo zar Alessandro III di realizzare un uovo di Pasqua sfarzoso da regalare alla zarina Marija Fëdorovna. Questo preziosissimo oggetto era decorato con platino, smalto bianco e pietre e come sorpresa conteneva un gioiello al suo interno. Nella Russia degli zar l'arte della fabbricazione di uova preziose ha raggiunto vertici ineguagliabili. La collezione imperiale vanta 52 esemplari stupefacenti.
Alla fine dell’800, fu comunque l’inglese John Cadbury che ebbe l’idea e cominciò a produrre in serie le prime uova di cioccolato con sorpresa all’interno, dando il via alla loro commercializzazione come regalo di Pasqua.
Non è difficile farsi il proprio uovo di cioccolato a casa, ma oltre al cioccolato, bisogna avere un apposito stampo (in silicone o policarbonato) per realizzare le due metà che poi verranno saldate. Per la cronaca, sto andando a comprarne uno. Non so se resisterà fino a Pasqua!
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Da poche settimane ho un account TikTok con il quale condivido qualche breve video: se vi fa piacere seguirmi, mi trovate qui: Orazio Food Experience su TikTok.
Questo numero contiene:
La videoricetta: Mezze maniche, porri e speck
Il ristorante della settimana: Torre, Milano
Il vino della settimana: Piera Dolza, il Torchiato di Fregona
Se vi viene voglia di acquistare qualcuno degli attrezzi di cucina che uso nelle videoricette, trovate i link ad Amazon nella descrizione dei video sulla pagina YouTube (cliccate “Mostra altro”, perché la lista sta in fondo), o, in mancanza, troverete comunque il modello dell’attrezzo utilizzato.
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La videoricetta: Mezze maniche, porri e speck
E’ un piatto semplice e gustosissimo, un piatto di recupero, uno svota-frigo, non raro a casa mia: mezze maniche, porri e speck. La dolcezza del porro stufato e della pasta, la sapidità e la nota leggermente affumicata dello speck, accompagnata dall’acidità del vino bianco e dalla spinta data dalle scaglie di pecorino ne fanno veramente un gran piatto. Si può usare il guanciale o la pancetta al posto dello speck e viene buonissimo lo stesso. Buona visione!
Il ristorante della settimana: Torre, Milano
Siamo a Milano, in zona Ripamonti, in via Lorenzini, 14, in uno degli edifici, la Torre, della fondazione dedicata all’arte contemporanea della famiglia Prada. L’edificio, alto 60 metri, ha nove piani, con un’altezza dei soffitti crescente, dai 2,7 metri del primo piano agli 8 metri dell’ultimo livello. Il lato sud della Torre presenta una struttura diagonale dentro la quale si inserisce un ascensore panoramico. Al sesto piano troviamo l’omonimo ristorante, aperto nel 2018, composto da due aree, il bar e il ristorante. I due ambienti sono caratterizzati dal contrasto tra le ampie vetrate a tutta altezza e i toni caldi del parquet, della boiserie in legno di noce e dei pannelli in canapa che rivestono le pareti. Il bar ha un imponente bancone centrale, con una scenografica bottigliera sospesa per i cocktail, e il ristorante è disposto su tre livelli leggermente sfalsati i cui arredi sono il meglio dell'estetica abitativa degli anni ‘50, con tavoli e sedie firmati da Eero Saarinen accanto a mobili originali del Four Seasons di New York, progettato da Philip Johnson nel 1958. All’interno opere di artisti come Lucio Fontana, William N. Copley, Jeff Koons, Goshka Macuga e John Wesley, e oltre la vetrata un balcone con spettacolare e inedita vista sulla città. Una meraviglia. Senza contare lo chef’s table, al settimo piano, dove ho avuto la fortuna di mangiare, uno spazio esclusivo e riservato con servizi dedicati, caratterizzato da una parete vetrata con vista sulle cucine e da una terrazza privata.
Lo chef, dal 2020, è Lorenzo Lunghi, fiorentino, classe 1986, con un curriculum importante avendo lavorato per tanti anni con Fulvio Pierangelini al Gambero Rosso a San Vincenzo, e che, tra le altre esperienze, annovera un periodo parigino in cui ha lavorato nelle cucine di Le Chateaubriand e Le Dauphin di Iñaki Aizpitarte e di Saturne di Sven Chartier, senza contare che si tratta di uno dei pochi cuochi italiani a far parte del prestigioso collettivo di avanguardia gastronomica meglio noto col nome di “Gelinaz!”.
Lorenzo propone una cucina istintiva, fatta di ingredienti freschi e stagionali abbinati con originalità e creatività, in cui in ogni piatto vengono esaltate le materie prime utilizzate. I piatti del menu, dai nomi che definirei “normali”, hanno però sempre quello sprazzo, quel raggio luce, quel qualcosa in più che te li fa ricordare vuoi per gli accostamenti originali e sempre azzeccati, vuoi per i colori, vuoi per la testura dei vari ingredienti, vuoi per il perfetto dosaggio delle salse. Le proteine, sia carni sia pesci, sono sempre accompagnate da una componente vegetale in grado di valorizzarle. Nelle paste, brodi e condimenti hanno sempre un qualche elemento wow. Piatti belli, divertenti, carichi di gusto, leggeri e gustosi. La carta propone un menù degustazione (120 euro), di sette portate a discrezione dello chef, che raccomando caldamente. Non compare la tradizionale distinzione tra antipasti, primi e secondi e tutti i piatti hanno un prezzo tra i 30 e 40 euro (12 euro i dessert). Intrigante e pensata con cura la lista dei vini, rimpolpatasi negli ultimi tempi. Giovane, disinvolto e gestito con passione il servizio al tavolo. Uno dei posti in cui sono stato meglio in questi ultimi mesi e in cui conto di ritornare presto, tanto più se si riesce a coniugare insieme al piacere per il fine dining anche quello per l’arte! Torre.
Il vino della settimana: Piera Dolza, il Torchiato di Fregona
Non è un vino molto conosciuto, eppure il Piera Dolza, Torchiato di Fregona ha una tradizione antica che risale al 1600. Piera Dolza significa "pietra gentile" ed è il nome di uno storico e rarissimo vino da dessert prodotto per la prima volta intorno al 1600 nella tradizionale zona del Prosecco intorno a Conegliano. Solo grazie all'iniziativa di 7 piccoli produttori locali oggi viene nuovamente prodotto. E’ un blend di tre diversi vitigni locali: Glera (Prosecco), Verdiso e Boschera. Le uve vengono fatte appassire su graticci per 6-8 mesi e poi pigiate a mano con un torchio. Il mosto concentrato che ne deriva fermenta in barrique per un mese e vi matura per altri tre anni. Come per molti altri vini passiti, la tradizione vuole che le barrique in cui il vino viene conservato non siano completamente piene. Questo porta a una graduale ossidazione e, verso la fine del processo di invecchiamento, a qualcosa di simile allo sherry o al vin jeaune del Jura. Ce ne parla Angelo Sabbadin in un articolo pubblicato recentemente nella sezione vino di passione Gourmet. Piera Dolza, il Torchiato di Fregona
Buona lettura e buona domenica!
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