Benvenuti al numero 51 di Orazio Food Experience. Sono ormai tanti anni che consiglio vini ad amici e conoscenti, per la loro cantina o al tavolo del ristorante, e al di là di una cerchia di appassionati e conoscitori (per fortuna in crescita) ogni volta che cerco di indagare sulla tipologia di vino preferito capisco che molti ignorano che tipo di vino gli piace veramente. Pare che la seconda bottiglia meno costosa della lista rimanga il criterio di scelta principale della media dei clienti di un ristorante! Al di là di questo estremo, normalmente la scelta di un vino al ristorante è guidata dall’abbinamento col cibo (sia esso basato su un criterio cromatico, per contrasto, per assonanza o sulla tradizione). Trovo giusto abbinare i vini col cibo, purché la scelta del vino sia fatta nell’ambito dei vini che ci piacciono. Quando chiediamo consiglio al sommelier, per ottenere il massimo dalla sua competenza vale la pena di fargli sapere sapere il nostro budget di spesa e la nostra tipologia dei vini preferita. Sarà un sollievo per il sommelier perché gli semplifichiamo la vita e un vantaggio per noi perché avremo un servizio migliore. Un vino andrebbe scelto oltre che per il colore (“vorrei un bianco”) anche per quelle caratteristiche intrinseche che incontrano il nostro gusto.
Provo a dare qualche esempio di caratteristiche intrinseche:
vini rossi schietti, giovani, dai profumi fruttati e floreali, poco tannici e “beverini“ tipo Dolcetto, Barbera, Lacrima di Morro d’Alba o Frappato;
vini rossi corposi e strutturati, purché maturi o addirittura invecchiati, preferibilmente da vitigni autoctoni tipo Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino, Amarone o Taurasi con buon grado di invecchiamento;
come sopra fino a “invecchiati”, ma preferibilmente da vitigni internazionali tipo Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc o Syrah;
vini rossi di medio corpo e buona struttura, giovani, con profumi fruttati e floreali e tannini in evidenza tipo Chianti, Nebbiolo, Refosco, Lagrein, Etna Rosso, Aglianico del Vulture o Nero d’Avola;
vini bianchi aromatici tipici del nord-est d’Italia tipo Friulano (Tocai), Ribolla Gialla, o Gewurtztraminer;
vini bianchi floreali, fruttati e di buona struttura tipo Fiano di Avellino, Falanghina, Verdicchio, Trebbiano, Etna Bianco, Cortese o Soave;
vini bianchi voluminosi, grassi e adatti all’invecchiamento tipo certi Chardonnay barricati;
vini bianchi secchi e “beverini” tipo Sauvignon Blanc, Vermentino, Lugana o Inzolia;
vini bianchi corposi tipo i macerati sulle bucce, gli orange wine, oggi così di moda, dai sentori di seme di melone, albicocca, liquirizia e camomilla dove spesso si avvertono anche i tannini.
Mentre scrivevo mi rendevo conto che le categorie indicate sopra sono una piccola frazione della incredibile varietà di possibili categorie di vino esistenti, che molti dei vini indicati potrebbero tranquillamente stare, a seconda di come, dove e da chi sono vinificati, in più di una categoria e che potrei avere messo qualche vino nella categoria sbagliata. Ma l’obiettivo era di stimolare a cercare di definire quali solo i vini che veramente ci piacciono. A questo proposito ho appena letto un libro di Filippo Bartolotta, esperto di vino, wine educator e sommelier, dal titolo Di che vino sei?, in cui l’autore propone un “modello semiserio di autoanalisi” per scoprire la propria personalità enologica e in base all’archetipo individuato (ne vengono definiti 12) si indicano dei vini che dovrebbero piacerci.
Nel percorso per cercare di capire il “proprio vino”, il consiglio che mi sento di dare per cominciare a raccapezzarsi è quello di “bere con attenzione” e se qualche vino ci ha colpito e ci è veramente piaciuto, iniziare a farci caso e trovare il modo di ricordarselo. Magari lo si annota e quando il block notes, cartaceo o elettronico che sia, comincia a contenere un po' di vini, potrebbe valere la pena di consultarsi con qualcuno esperto. Io ho iniziato così. Occhio però, ci sono fattori ambientali che bisogna tarare:
Quando siamo in un bell’ambiente e con persone simpatiche, il vino tende a essere più buono, talvolta anche molto più buono (vale anche l’opposto, quando la compagnia non è piacevole). Quindi quello che ci è piaciuto tanto in buona compagnia va riassaggiato in situazione “normale”.
Attenzione alle temperature. Spesso i vini rossi vengono serviti troppo caldi (la temperatura ambiente di un ristorante, tipicamente oltre i 20 gradi, penalizza notevolmente il gusto di un vino rosso) e i vini bianchi vengono serviti troppo freddi (a 8-10 gradi si sente solo l’acidità, non certo gli aromi). Che fare? Chiedere la glacette per i rossi e tenere il vino nel bicchiere qualche minuto per i bianchi.
Il vino famoso e blasonato tende a essere più apprezzato di quello sconosciuto. Lo stesso vale per il vino caro rispetto a quello che costa poco. Non c’è niente da fare, è così, ormai è dimostrato. E’ vero che spesso c’è una correlazione tra blasone e/o prezzo e qualità, ma quante volte non è così? Conoscere i propri gusti tende a limitare questo inconsapevole pregiudizio e richiede esercizio. Sconsiglio le degustazioni alla cieca se non si ha una certa esperienza.
Quando un vino viene consigliato da un conoscitore, soprattutto se si tratta di uno simpatico, quel vino tende a piacere di più. Avere un mentore aiuta, ma poi vale la pena di emanciparsi.
Cerchiamo quindi di capire i vini che ci piacciono. Questo periodo in cui si è costretti a stare a casa e si può andare poco (o niente) al ristorante è favorevole per fare esperimenti. E ricordiamoci che una volta che iniziamo a bere con attenzione e riteniamo di aver trovato il nostro vino, i gusti cambiano o quanto meno si raffinano. Prima o poi cambieremo idea su quello che ci piace di più. C’è una naturale evoluzione. Bevo con attenzione da qualche decennio e ormai credo di sapere cosa mi piace, pur avendo cambiato preferenze più volte nel corso del tempo. Trovo questa una delle cose più eccitanti. So bene quello che mi piace adesso, ma forse quello che mi piace di più non l’ho ancora scoperto. Io intanto continuo la ricerca.
E veniamo alle ricette. Oggi uno dei classici della cucina meneghina: la cotoletta, anzi la costoletta alla milanese, quella alta e con l’osso. Inoltre propongo un piatto ligure vegetariano, tipico del periodo pasquale, ma che è perfetto tutto l’anno: la torta pasqualina, un jolly, una torta salata che può fare da contorno, da secondo o piatto unico, nella versione del Cucchiaio d’Argento.
Questo numero contiene:
La videoricetta: Costoletta alla milanese
La ricetta della settimana: Torta pasqualina
Il ristorante della settimana: La Peca, Lonigo
Il vino della settimana: Braida e la Barbera
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La videoricetta: Costoletta alla milanese
E’ nata prima la cotoletta alla milanese o la Wiener Schnitzel? Le leggende sono più d’una: che la cotoletta sia stata portata a Milano dal generale Radetzky, visto che negli anni intorno al 1830 gli austriaci già conoscevano una cotoletta contenuta nel “Piccolo libro di cucina austriaca” del 1798. Ma c’è anche quella secondo cui il Conte Attems, aiutante di Radetzky, ai primi dell’800 avendo assaggiato a Milano una cotoletta impanata ne parlò in una lettera come di uno “straordinario piatto a base di vitello impanato nell’uovo e fritto nel burro” mettendo le basi per la sua emulazione da parte dei viennesi. Eppure anche i francesi entrati a Milano nel 1796 conoscevano la cotoletta impanata e fritta contenuta in un ricettario proprio del 1796, “La science du maȋtre d’hotel”. A rinforzare la teoria “francese” la circostanza che il nome “cotoletta” deriva dal dialetto milanese “cutelèta”, a sua volta mutuato dal francese côtelette, che vuol dire “costoletta”. Che gli austriaci abbiano copiato dai francesi? Chissà! Certo è che il lombos cum panitio (costoletta di vitello che veniva impanata e fritta) a Milano lo si conosceva almeno dal Medioevo. Infatti il menù piuttosto iperproteico dei canonici di Sant’Ambrogio del 1148 (anche citato nella nota “Storia di Milano” di Pietro Verri del 1783), oggi conservato nella Biblioteca dell’archivio capitolare della basilica, prevedeva che nei giorni solenni la terza e ultima portata consistesse in: «pullos rostidos, lombos cum panitio, et porcellos plenos». E poi la Wiener Schnitzel è fatta col maiale e si cuoce nello strutto. La milanese si fa con la lombata di vitello e si cuoce nel burro (chiarificato). Credo che ciascuno rimarrà fermo nelle sue convinzioni.
Quanto al nome, il Comune di Milano, con la delibera di Giunta datata 17 marzo 2008, ha assegnato la DE.CO. (“Denominazione Comunale”) alla “Costoletta alla milanese” e non cotoletta.
La costoletta alla milanese si fa con le costine ricavate dalla lombata del vitello da latte. La carne va pareggiata col batticarne, ma tenuta dello spessore dell’osso. La versione in cui la carne viene aperta a portafoglio e ben battuta fino a ricordare la forma dell’orecchia di elefante, comparsa in gastronomia negli anni ‘60, per quanto rappresenti un’alternativa, non è la vera costoletta alla milanese. Nella versione che propongo nel video, secondo tradizione ho mantenuto l’osso, che si può ovviamente levare. Per la “panatura” ho usato oltre alle uova dei grissini ridotti in briciole invece del pangrattato. La frittura va fatta con burro chiarificato. Ho preferito fare una doppia panatura sia perché adoro la crosticina, sia per non rischiare di bruciare la crosticina che a causa dello spessore della carne richiede una cottura piuttosto lunga di sei-otto minuti ad una temperatura di circa 150 gradi. Buona visione!
La ricetta della settimana: Torta pasqualina
Tipica torta salata della tradizione ligure che si prepara nel periodo di Pasqua, la torta pasqualina è ideale per le merende, ma può fare anche da contorno o da secondo. Se si prepara la sfoglia fatta in casa, la ricetta prevede due strati di sfoglia sul fondo della teglia e due strati per la copertura. E’ una torta che preparo anche al di fuori del periodo pasquale e per semplificarla opto per l’uso di una pasta già pronta presa al supermercato. Io preferisco usare, invece della sfoglia, uno strato di pasta brisée sia per il fondo sia per la copertura. Ecco la ricetta che ho trovato sul sito del Cucchiaio d’Argento. Torta pasqualina
Il ristorante della settimana: La Peca, Lonigo
Siamo a Lonigo, in provincia di Vicenza, ai piedi dei colli Berici. Qui troviamo La Peca (in veneto “l’impronta”), ristorante bistellato dei fratelli Portinari, Nicola (lo chef) e Luigi (il maître e pastry chef). Il posto è molto bello con interni di design contemporaneo arredati con grande gusto. Oltre all’ampia scelta dalla carta, dove risalta un imponente assortimento di dolci, sorbetti e gelati vengono proposti tre menu, uno ridotto di 4 portate a scelta dello chef, e uno di mare e uno di terra da nove portate. Nicola lavora con grande capacità materie prime eccellenti e propone piatti originali in cui grazie a perfette proporzioni si genera un equilibrio tra colori, sapori, temperature e consistenze che permette a tutti gli ingredienti di essere esaltati. Alcuni piatti come la Rana Pescatrice dry-age al pepe verde, spinaci alle olive e cranberry, le Capesante, rape iodate e granita di corallo, il Risotto d’anatra, porro e mosto d’uva Garganega, la Lepre, fegato grasso, nespole al bitter-DiBaldo e chips di verza e l’Anguilla in forno di braci, salsa teriyaki e daikon piccante sono dei veri capolavori. Da urlo i dolci preparati da Luigi, capace di mantecare il gelato come pochi al mondo. Una menzione particolare va alla cantina molto fornita e di grande profondità che propone vini con ricarichi molto corretti gestita, insieme a Luigi dal bravissimo sommelier Matteo Bressan. La Peca è uno di quei ristoranti che gli appassionati gourmet non possono mancare, un punto di riferimento dell’alta cucina italiana. Covid permettendo, non vedo l’ora di tornarci. “La Peca sarà forse anche cambiata, nel tempo, ma è cambiata dimostrando una coerenza verso se stessa, in una parola, un’integrità, che ha pochi uguali nel panorama identitario dei grandi ristoranti della contemporaneità.” Sono parole di Andrea Grignaffini tratte dalla sua recensione pubblicata su Passione Gourmet. La Peca
Il vino della settimana: Braida e la Barbera
“Braida” era il soprannome che il padre di Giacomo Bologna, Giuseppe, di professione carrettiere, si era conquistato giocando a pallone elastico, per via della sua somiglianza col campione di questo sport. Grazie alla vigna ereditata dal papà, Giacomo Bologna, nel 1961 fonda la cantina Braida, a Rocchetta Tanaro, tra Langhe e Monferrato. Giacomo Bologna ebbe l’intuizione di valorizzare le caratteristiche della Barbera utilizzando barrique francesi per l’affinamento e conquistandosi il merito di avere innalzato la Barbera d'Asti a rosso di grande pregio. L’uso delle botti piccole francesi era allora una pratica sconosciuta in Italia che, in breve tempo, si rivelò una idea pioneristica di grande successo. Dal lungo invecchiamento in barrique nascono infatti le tre etichette più note della cantina: il “Bricco dell'Uccellone”, il “Bricco della Bigotta” e “Ai Suma”. Oggi Giuseppe e Raffaella, i figli di Giacomo –scomparso nel 1990 – portano avanti l’azienda. Erika Mantovan ci racconta storia e vini della cantina Braida in un articolo pubblicato nella sezione vini di Passione Gourmet. Braida e la Barbera
Buona Domenica!
Orazio