Benvenuti al numero 258 di Orazio Food Experience. Un particolare benvenuto a chi si è iscritto nell’ultima settimana! Mi incuriosisce sempre scoprire che tipo di vino piace alle persone con cui sto bevendo. Che sia durante un corso – da relatore o da allievo – oppure seduti al ristorante con il menu in mano, la scena è sempre la stessa: si parla di fermo o mosso, bianco o rosso (qualcuno azzarda un rosato), Nord o Sud, Italia o Francia, magari Nuovo Mondo. E fin qui tutto bene. Ma c’è un aspetto che quasi nessuno tocca – e che invece orienterebbe in modo preciso e più consapevole la scelta –: in che tipo di contenitore è stato fatto il vino? Acciaio, cemento, anfora, legno piccolo o legno grande: il contenitore (o i contenitori) in cui il vino è stato rispettivamente vinificato e affinato non è (non sono) un dettaglio destinato solo a enologi pignoli o a enostrippati, ma un’informazione fondamentale. Un po’ come sapere se un caffè è fatto con la moka o con la macchina espresso: cambia tutto. Il contenitore ci racconta lo stile, gli aromi, la texture e perfino la personalità del vino, prima ancora di versarlo nel bicchiere. E non si tratta di un’informazione misteriosa nascosta tra i filari: spesso la troviamo anche in etichetta (e comunque è un’informazione ottenibile in pochi secondi con lo smartphone). Basta solo sapere cosa cercare – e, dopo averlo appreso, sapere cosa aspettarsi nel bicchiere. Qualche anno fa, come passo finale per diventare Maestro Assaggiatore ONAV, ho scritto una tesina sui contenitori per la vinificazione e l’affinamento. Ho provato a sintetizzare le informazioni in questo post.
La vinificazione e l’affinamento del vino in acciaio, cemento, anfora, legno piccolo (barrique o tonneau) o botte grande produce effetti molto diversi sul profilo aromatico, sulla struttura e sull’evoluzione del vino. Ecco un confronto.
Acciaio inox
Avrete sicuramente visto quei grandi contenitori d’acciaio che vi mostrano durante le visite in cantina: lucidi, altissimi, ordinati. Sono le vasche in acciaio inox, oggi onnipresenti nella vinificazione moderna. L’acciaio è un materiale neutro e inerte: non interagisce chimicamente con il vino e non cede né assorbe aromi. È anche completamente impermeabile all’ossigeno, il che significa che il vino al suo interno rimane in un ambiente perfettamente isolato, privo di scambi gassosi. Inoltre l’acciaio ha un enorme vantaggio pratico: permette un controllo termico di altissima precisione, fondamentale soprattutto in fase di fermentazione. Per il produttore, l’acciaio è una manna: è igienico, facile da pulire, durevole e versatile. Perfetto per chi vuole lavorare sul frutto e sulla precisione. Ma c’è anche un limite da considerare: l’acciaio, proprio perché non lascia passare nemmeno una molecola d’ossigeno, può rendere il vino troppo chiuso, specie nei primi mesi. Il risultato? Un vino che fatica ad aprirsi, a esprimere profumi complessi, e che rischia di restare un po’ “ingessato” nel tempo. Se poi non viene gestito con attenzione, l’assenza totale di ossigeno può favorire fenomeni di riduzione: si possono formare composti solforati che danno odori poco gradevoli, come fiammifero spento, uovo sodo o gomma bruciata.
Il risultato nel bicchiere? Vini freschi, puliti, nitidi, dove il frutto è in primo piano. Nessun sentore di legno o spezie, niente arrotondamenti artificiali: solo la voce del vitigno, chiara e diretta. L’acciaio è la scelta perfetta per vini bianchi giovani, rosati, spumanti base, ma anche per rossi leggeri e beverini. E non mancano i casi di affinamenti lunghi in acciaio (anche di 5–10 anni), in cui si cerca un’evoluzione silenziosa e priva di interferenze: pura tensione, verticalità e profondità senza sovrastrutture.
Cemento
Parliamo di cemento non vetrificato, una versione moderna del cemento. Un tempo l’uso del cemento non vetrificato era vietato in molte normative enologiche, soprattutto per motivi igienico-sanitari. Il rischio principale era legato al rilascio di sostanze (come calcio libero o composti alcalini) che potevano alterare il vino, nonché alla difficoltà di pulizia e alla porosità che favoriva contaminazioni microbiche. Per ovviare a questo problema, si imponeva l’uso di cemento vetrificato: vasche rivestite internamente con materiali come resine epossidiche, piastrelle o vernici alimentari, per creare una barriera inerte tra il vino e la superficie porosa del cemento. Non avendo il vantaggio della traspirazione, con l’avvento dell’acciaio, più leggero, più versatile e con facilità di controllo delle temperature, il cemento vetrificato fu di fatto abbandonato. Oggi sono state create vasche di cemento grezzo “respirante”, ma inertizzato attraverso lunghe fasi di stagionatura e lavaggi acidi prima dell’utilizzo. Le vasche moderne possono essere trattate con una sorta di “passivazione” chimica che stabilizza la superficie, riducendo il rilascio di ioni. Insomma sono sicure. Il cemento non vetrificato è apprezzato per la sua inerzia termica, la microssigenazione controllata e l’assenza di cessioni aromatiche (a differenza del legno). Inoltre oggi sono disponibili contenitori molto meno ingombranti e logisticamente molto meno invadenti rispetto a quelli di un tempo. Per quanto meno fotogenico dell’acciaio, il cemento è un materiale che negli ultimi anni è stato riscoperto e rivalutato, ed è amato da molti vignaioli. Se durante una visita in cantina vi capita di vedere delle vasche grigie, spesse, spesso a forma di uovo o troncoconiche, sappiate che non siete davanti a un rudere industriale, ma a uno degli strumenti più intelligenti della vinificazione. Il cemento è un materiale leggermente poroso, il che significa che consente una micro-ossigenazione naturale: non quanto il legno, ma più dell’acciaio. A differenza di quest’ultimo, però, il cemento non cede aromi e resta sostanzialmente neutro dal punto di vista gustativo. Il suo grande punto di forza è l’inerzia termica: riesce a mantenere la temperatura stabile senza bisogno di impianti complessi, cosa utilissima durante le fermentazioni, soprattutto in cantine prive di controllo climatico attivo. Dal punto di vista pratico, il cemento è robusto, stabile e “tranquillo”: non altera il vino ma lo accompagna nella sua evoluzione. È particolarmente amato da chi cerca equilibrio tra precisione e naturalezza. I contro? Non è semplicissimo da gestire: pulizia e sanificazione sono più complesse rispetto all’acciaio se la vasca è grezza (non vetrificata). E può succedere, in casi mal gestiti, che il materiale assorba aromi o agenti microbiologici indesiderati.
Il vino fermentato e affinato in cemento ha spesso una bocca più morbida, una tessitura più rotonda rispetto all’acciaio, ma senza quei profumi “aggiunti” che arrivano dal legno. È una scelta perfetta per chi vuole esaltare la materia dell’uva senza interferenze, ottenendo vini che uniscono pulizia e profondità. Lo usano molti produttori di vini bianchi di struttura, ma anche di rossi eleganti e territoriali: pensate a un Verdicchio sapido e longevo, a un vino bianco come il Timorasso o a un rosso dell’Etna che vogliono raccontare il suolo più che la botte.
Anfora
Se vi capita di entrare in una cantina e vedere grandi vasi panciuti in terracotta o magari vasi interrati (in questo caso vedrete solo la parte la parte superiore, il cosiddetto “collo”), state guardando le anfore: uno dei contenitori più antichi della storia del vino, oggi tornato sorprendentemente moderno. C’è chi le chiama “qvevri” (in Georgia), chi “tinajas” (in Spagna), chi semplicemente “anfore” (tra l’altro alcuni tra i maggiori e migliori produttori stanno in Italia, quindi chiamatele “anfore”). Le anfore possono essere in terracotta, cocciopesto, gres o ceramica smaltata. Alcune sono rivestite internamente con cera d’api o resine naturali per ridurne la porosità. Sono contenitori traspiranti, come il legno, ma non rilasciano aromi. Questo le rende perfette per chi vuole un’evoluzione lenta, delicata, ma senza influenze aromatiche esterne. In più, la forma (spesso ovale o a uovo) crea movimenti naturali nel liquido che aiutano a mantenere le fecce in sospensione, favorendo la complessità. Dal punto di vista del produttore, l’anfora è una scelta di stile. Più difficile da gestire rispetto ad acciaio o cemento, fragile, costosa, e sensibile alle variazioni microbiche. Ma in cambio offre qualcosa di raro: una voce pura del vino, amplificata nella materia, nella struttura, nella profondità. I contro? Non è per tutti. Richiede esperienza, cura maniacale nella pulizia e, spesso, un’idea molto precisa del vino che si vuole fare. E sì, ogni anfora è diversa: è un contenitore “artigiano”, non un clone in serie.
Il vino che nasce o affina in anfora è tattile, sapido, essenziale. Al naso può avere note terrose, ferrose, talvolta speziate, ma mai tecnicamente aggiunte, con un sottofondo leggermente ossidativo se l’anfora non è interrata. Il contatto con le fecce fini (frequente nei vini in anfora) e l’interazione con l’argilla danno al vino una testura materica, tridimensionale, a volte quasi polverosa o ruvida, ma viva. È un vino che si mastica, più che si beve, e spesso ha un finale sapido che richiama la pietra o l’argilla. È lo strumento ideale per vini cosiddetti naturali e per gli orange wines, perfetto per chi cerca profondità senza artificio. Pensate a una Ribolla Gialla lunga e misteriosa, a un Frappato elegante ma vibrante, o a una Nosiola trentina che, senza legno, sembra scolpita nella pietra.
Legno piccolo (barrique, tonneau)
Quando si parla di legno in cantina, la prima immagine che viene in mente è quella della barrique, piccola, elegante, spesso impilata in lunghe file ordinate in ambienti freschi e silenziosi. Con i suoi 225 litri (o 300–600 nel caso del tonneau), è il contenitore simbolo della modernità enologica, amatissimo dagli anni ’80 in poi, soprattutto da chi cerca morbidezza, volume e complessità aromatica. Il legno piccolo – solitamente rovere francese, americano o di Slavonia (tra Croazia, Serbia e Ungheria) – è un contenitore vivo, poroso, che permette un contatto intenso tra vino, ossigeno e materia organica. Inoltre, essendo nuovo o seminuovo, cede al vino una serie di composti aromatici: vaniglia, spezie dolci, tostatura, cacao, cocco… A seconda della tostatura interna, cambia anche il timbro: da elegante e sottile a caldo e affumicato.Per il produttore, la barrique è uno strumento potente. Permette di modulare stile e struttura, levigare tannini nei rossi, arricchire i bianchi. È perfetta per dare al vino un’impronta internazionale e una maggiore longevità. Ma attenzione: può facilmente prendere il sopravvento. Troppo legno copre il frutto, maschera il vitigno, rende tutto più simile a tutto. E poi c’è il costo: ogni barrique nuova è un piccolo investimento.
I vini che passano in barrique o tonneau hanno profumi caldi, avvolgenti: vaniglia, chiodi di garofano, caffè, cioccolato, caramello. In bocca sono rotondi, vellutati, strutturati, spesso con un finale lungo e speziato. È la scelta giusta per rossi strutturati (Cabernet, Merlot, Sangiovese, Syrah), bianchi complessi (Chardonnay, Verdicchio, Timorasso), o per vini dolci da invecchiamento. Chi ama il vino ampio, morbido, cremoso, qui trova una delle sue più grandi soddisfazioni.
Legno grande (botte)
Poi c’è la botte grande, la signora del vino tradizionale. Robusta, austera, silenziosa, spesso fatta di rovere di Slavonia e capace di contenere dai 10 ai 100 ettolitri. È il contenitore usato per secoli in molte zone d’Italia e d’Europa: dall’Alto Adige alla Valpolicella, dalla Toscana al Piemonte, fino alla Franconia e alla Wachau. Il legno grande, per il suo ridotto rapporto tra superficie e volume, ha un impatto molto più discreto rispetto alla barrique. Non cede aromi rilevanti (soprattutto se è già usato) e svolge soprattutto una funzione di contenimento ed evoluzione lenta grazie alla sua micro-ossigenazione naturale. La sua porosità permette al vino di respirare, maturare, assestarsi. Ma lo fa con eleganza e rispetto, senza travestimenti.
Per il produttore, la botte è una scelta di fedeltà al territorio. Non impone uno stile, non aggiunge spezie o vaniglia, non altera l’impronta varietale. È perfetta per i vini che hanno tanto da dire da soli. Svantaggi? Occupa spazio, richiede manutenzione attenta e costante, e – se mal gestita – può favorire ossidazioni o deviazioni batteriche.
Il vino che affina in botte grande si esprime con misura, profondità e finezza. I profumi non sono esplosivi, ma evolvono lentamente: dal frutto al sottobosco, dalle erbe secche al cuoio. In bocca è armonico, disteso, elegante, con tannini levigati dal tempo. È la scelta ideale per rossi longevi e raffinati (Barolo, Brunello, Sangiovese di razza, Nebbiolo, Lagrein), ma anche per bianchi territoriali come Verdicchio, Riesling o Trebbiano d’Abruzzo. Se la barrique è un amplificatore, la botte grande è un microfono che restituisce il suono naturale del vino.
In conclusione il contenitore plasma il vino quanto il vitigno o il territorio. Ne definisce il profilo aromatico, la consistenza in bocca, lo stile, il potenziale di evoluzione. Un vino fatto in acciaio sarà quasi sempre più teso, croccante, diretto. Un vino passato in barrique tenderà a essere più morbido, speziato, avvolgente. Un vino di anfora avrà spesso una matericità tattile inconfondibile. E tutto questo lo possiamo intuire prima ancora di stapparlo, se solo impariamo a leggere questa informazione con attenzione. Riassumendo:
Quindi, la prossima volta che vi trovate a scegliere una bottiglia, provate a chiedervelo: dove è stato “allevato” questo vino? La risposta non vi dirà tutto, ma vi metterà sulla strada giusta per capirlo.
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Questo numero contiene:
La videoricetta: Pasta fredda con tonno, avocado e lime
Il ristorante della settimana: Trattoria della Gloria, Milano
Il vino della settimana: Collio goriziano
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La videoricetta: Pasta fredda con tonno, avocado e lime
La pasta fredda con tonno, avocado e lime è un delizioso e insolito primo piatto freddo, facile e veloce da preparare. Il video contiene tutti i consigli necessari a cucinare alla perfezione una pasta fredda che rimanga al dente, e che non si gonfi e ammolli. Dal gusto fresco e particolare, è un piatto perfetto non solo da mangiare a casa, ma anche da portare in ufficio per il pranzo, al mare, sotto l’ombrellone o per una gita fuori porta. Buona visione!
Il ristorante della settimana: Trattoria della Gloria, Milano
Siamo a Milano, in via Pichi 5, una vietta in zona Naviglio Pavese, dall’altra parte dell’acqua rispetto a via Ascanio Sforza. Qui troviamo Trattoria della Gloria (da non confondere con Gloria Osteria, che si trova in via Tivoli, in zona Brera/Lanza), quella che definirei una trattoria contemporanea milanese. Un paio d’anni fa, qui c’era una tradizionale trattoria omonima, con Carmine ai tavoli e sua moglie Gloria — per l’appunto — in cucina. Oggi il posto, completamente rinnovato, è gestito da un trio non convenzionale: Tommaso Melilli in cucina, Luca Gennati e Rocco Galasso in sala e cantina. Sono tutti laureati in Lettere (forse a Rocco manca ancora qualche esame), un’estrazione inusuale nel mondo della ristorazione e non credo manchi loro un certo senso dell’umorismo, visto che hanno chiamato la loro società E INVECE DI DORMIRE S.r.l. Tutti, però, hanno una solida esperienza nella ristorazione: Tommaso, che tra l’altro è anche scrittore (I conti con l’oste), ha alle spalle un’esperienza decennale nella ristorazione parigina, mentre Luca e Rocco avevano lavorato da Enoteca Naturale.
L’ambiente del locale è curato ma informale: tavoli di legno, niente tovaglie, lampade dal tocco retrò. Gli spazi sono raccolti: la sala interna ospita circa 25 persone ai tavoli, più una decina di sedute su sgabelli, tra il bancone che guarda la cucina e un tavolo da sei illuminato da una tipica lampada da biliardo — ideale per chi preferisce un calice o un pasto veloce. Il dehors, invece, è un’intima estensione all’aperto, che può ospitare una quindicina di persone. L’atmosfera è vagamente da bistrot parigino, con charme e calore italiani. Mi ripeto: trattoria contemporanea milanese.
Il menu è ridotto e variabile, aggiornato quasi ogni giorno in base a quanto offre il mercato. Le materie prime sono selezionate, locali, laddove possibile stagionali e spesso biologiche, con particolare attenzione alla riduzione degli sprechi. Tommaso reinterpreta piatti della cucina italiana con originalità, ottima tecnica e attenzione alla qualità e provenienza degli ingredienti. Eccellenti: il Minestrone freddo a base di vegetali di stagione con la giusta punta di acidità per dare freschezza, il Paté di fegatini, l’Insalata di trippa a base di foiolo con giardiniera, la Crema di fave e friggitelli, il Diaframma di manzo con rape e ciliegie cotto al sangue e condito con salsa Chimichurri, e il Tiramisù perduto, una squisita versione meno dolce del tradizionale, dove al posto dei Savoiardi è stato usato del pane raffermo. Il servizio in sala, informale se non addirittura amicale, è uno dei tratti distintivi del locale. Luca e Rocco sono prodighi di consigli, sia sul menù sia sul vino. Non esiste una carta dei vini, anche se sono disponibili numerose etichette provenienti da vari territori, anche d’oltralpe, perlopiù di produttori artigianali. Sanno ascoltare e proporre il vino giusto. Un indirizzo che mi è piaciuto molto. Consigliatissimo. PS: prenotazione necessaria. Trattoria della Gloria
Il vino della settimana: El Grifo, Canarie
Fondata nel 1775, El Grifo è tra le dieci cantine più antiche della Spagna e la più antica delle Canarie. La proprietà è passata attraverso tre famiglie: Ribera, De Castro, e dal 1880 alla dinastia García Durán, proprietari ancora oggi. Conserva botti risalenti al 1881 con Malvasía Volcánica, testimoni della sua lunga eredità. Situata nella regione di La Geria, nei pressi del Parco Nazionale del Timanfaya, coltiva viti “eroiche” tra cenere vulcanica protette da muretti semicircolari, uno stile unico al mondo. La lava eruttata tra il 1730 e il 1736 ha creato un terroir intrigante: terreno nero, arido, con suolo che trattiene l’umidità notturna. La fillossera, che devastò i vigneti nell’ultimo terzo del XIX secolo in Europa, non raggiunse le Canarie, quindi tutte le viti sono a piede franco, senza bisogno di portainnesti. Le varietà pre-fillosseriche di El Grifo sono: Malvasía volcánica, Listán negro, Listán blanco, Vijariego e Moscatel. Angelo Sabaddin ha visitato El Grifo a Lanzarote e ne ha tratto un articolo pubblicato nella sezione vini di Passione Gourmet e consultabile al seguente link: El Grifo, in cui ci parla di El Grifo, del panorama da togliere il fiato dei suoi vigneti, della sua storia e dei vini degustati.
Buona lettura e buona domenica!
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